Cielo azzurro senza nuvole. Fiochi raggi di sole. Una leggera brezza provoca una danza colorata di margheritine di campo. Ho sempre amato la primavera. E’ bella da respirare, da ammirare, da vivere. Ed io da questo prato, da questa posizione, riesco a godermela tutta. Vedo maree di ragazzi che riempiono i vicoli e l’aria col suono gioioso delle loro risate. Risate spensierate, festose. Vecchiette che come mamme orse uscite da un lungo letargo invernale, s’appropinquano lento pede verso i mercatini, anch’essi vestiti a festa grazie ai colori variopinti dei cibi freschi. Queste rughe potrebbero raccontare mille momenti, scherzi, pianti vissuti da questa gente. Ho raccolto tanto nel corso degli anni. Ho visto miriadi e miriadi di persone: tristi, entusiaste, con una faccia buffa, con un viso quadrato. Potrei descrivervi forse i lineamenti di ciascuno. Probabilmente potrei fare la stessa cosa con le emozioni, gli stati d’animo di ognuno di essi. Ma una persona, un ragazzo mi è rimasto particolarmente a cuore. Il suo nome inizia per “C”. “C” come cuore appunto. “C” come casa. Cuore e casa. Un bel binomio! C. ha sempre frequentato questa prateria, e le sue ginocchia piene di cicatrici avrebbero potuto costituire un bella prova nel caso non mi aveste creduto. Prima C veniva a giocare a calcio coi compagni, e ne ho subite di urla, schiamazzi, in quel periodo! Alla fine di ogni partita correvano tutti a riposarsi da me, e quello era il momento più bello per loro, un momento di calma, di spensieratezza fanciullesca che la vita ti concede una sola volta. Col tempo il posto dei compagni era stato occupato da qualche ragazzina, da quel primo amore che sa toglierti il fiato. Ed io sempre lì ad accoglierlo sotto la mia ombra. Un giorno poi C., ormai ventenne, mi venne a trovare da solo. Il viso e quel sorriso che l’aveva sempre contraddistinto, erano a metà strada tra la felicità e la tristezza. Io non avrei mai potuto dargli qualche consiglio, data la mia natura, ma lui iniziò a parlare, e raccontò di questa città lontana, piena di smog e cemento, che l’avrebbe accolto tra qualche settimana. Nebbia, fumo, pioggia, lavoro, uffici, case su case. Per un momento da quelle labbra non uscivano altre parole, ma ad un tratto un semplice nome seppe dare un tono diverso a quel discorso: sogno. “Vado lì per realizzare il mio sogno!”. C. sapeva che quel mondo, nonostante fosse buio, l’avrebbe portato a realizzare il suo sogno. Ed era ancora più consapevole che questo si sarebbe potuto concretizzare grazie a ciò che aveva imparato e lasciato qui. Raccolse un po’ di terra e sassi che erano intorno a me. Mi guardò con due occhi blu profondi quanto un oceano. Occhi si speranza. Mise il suo pugnetto in tasca e andò via. Le stagioni passarono. A maggio lo rividi tornare. C. era cambiato: più robusto, con la barba, aveva persino una nuova macchina. Avrei voluto abbracciarlo. Si sedette accanto a me e non mi raccontò di quella lontana città grigia. Eh no! Mi parlò di quanto fosse stato bello tornare, di quanto gli fosse mancato il candore di queste case bianche, le urla delle donne ai balconi, la frutta fresca tra le mani di contadini stanchi, il sabato mattina. Mi parlò dell’abbraccio caldo di sua madre, di quanto calore abbia sentito in quelle braccia che lo stringevano. E senza dirmelo mi fece capire che tutto ciò era diventato la sua forza. La sua marcia in più in quella sconosciuta città. I sassi e la terra che prese prima di partire erano le sue radici, non più le mie. In quei granuli erano contenuti tutti i ricordi e gli insegnamenti imparati qui. C. era felice, ed io con lui. Era diventato un’aquila forte e libera tra il cielo e i sassi. Tra una nuova vita ancorata ad una vecchia ricca e preziosa.
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